ANPR - “Un incrocio di destini in una strana storia”: l’anagrafe deve fotografare la realtà, non l’apparenza

La residenza contempla una molteplicità di sfumature, che sono il risultato della combinazione fra le variabili dell’elemento oggettivo e quelle dell’elemento soggettivo

Approfondimento di W. Damiani

La mera permanenza in un’abitazione non è sufficiente a determinare la residenza, che è il risultato delle abitudini di vita della persona e che pertanto può contenere una molteplicità di sfumature da valutare caso per caso.

L’approfondimento intende esaminare il concetto di residenza, che è una nozione apparentemente scontata e che alcune volte finisce erroneamente per confondersi con quella che è la permanenza “visibile” di una persona in un determinato luogo. Invero la residenza contempla una molteplicità di sfumature, che sono il risultato della combinazione fra le variabili dell’elemento oggettivo e quelle dell’elemento soggettivo.
La costante giurisprudenza della Corte di cassazione insegna infatti che la residenza di una persona è determinata dalla sua abituale e volontaria dimora in un determinato luogo, cioè dall’elemento oggettivo della permanenza in tale luogo e dall’elemento soggettivo dell’intenzione di abitarvi stabilmente, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali” (v. Cassazione civile, Sez. II, sentenza n. 1738 del 14 marzo 1986).

Quindi può parlarsi di residenza quando vi è la compresenza dei due elementi:

  • l’elemento oggettivo, che è l’aspetto esteriore e che si concretizza nell’insieme di fatti e comportamenti che denotano la presenza stabile della persona;
  • l’elemento soggettivo, che è la dimensione interiore e che consiste nella volontà dell’interessato di protrarre indefinitamente la propria permanenza nel Comune (cosiddetto animus incolandi).

La definizione del concetto di residenza elaborata dalla giurisprudenza non si fonda quindi sulla presenza fisica della persona, ma presuppone una commistione di elementi oggettivi (permanenza della persona nel luogo) e soggettivi (volontà di rimanerci) che va ad individuare il “centro delle proprie relazioni familiari e sociali”.
Capita così che a volte l’apparenza sia diversa dalla realtà e ciò che esteriormente potrebbe apparire come residenza in realtà non lo è (e viceversa); l’anagrafe però deve essere la fotografia della realtà, non dell’apparenza, e pertanto in alcuni casi l’ufficiale d’anagrafe non può fermarsi alla sola analisi di ciò che appare, ma deve scavare oltre, valutando le abitudini di vita della persona in un contesto più ampio di quello legato alla mera presenza nel luogo.
Come tradizione di questa newsletter non rimaniamo sulla teoria ma andiamo sul campo per offrire ai lettori degli esempi concreti che possano descrivere meglio le diverse situazioni.
Parliamo così di “un incrocio di destini in una strana storia”, che non è quella cantata da Francesco De Gregori, ma è la storia di due persone, di Paride e di Leonardo, che vivono entrambi in un condominio nella periferia di una grande città italiana.
Paride ha trentacinque anni e di mestiere fa l’autotrasportatore per una importante azienda del luogo. Da quasi un anno ha deciso di andare a vivere da solo per avere la propria indipendenza; il lavoro lo costringe però a lunghe trasferte nell’est dell’Europa e solitamente riesce a far ritorno nella propria abitazione solo nel fine settimana, anzi alcune volte resta fuori anche durante il week end.
Quando rientra a casa il sabato mattina incontra il suo coetaneo Leonardo, che ha preso in affitto il bilocale davanti al suo, mentre esce con il suo trolley per tornare dalla sua famiglia. Leonardo da qualche anno fa il dirigente per una nota multinazionale. Il lavoro lo ha costretto ad allontanarsi da casa e a trovare un appoggio vicino alla sede dell’azienda, per evitare il pendolarismo. Finita la settimana Leonardo riprende la sua auto e si mette in viaggio per più di duecento chilometri al fine di trascorrere il week end con sua moglie e i suoi figli.
Se ci fermassimo solo all’apparenza rischieremmo di concludere frettolosamente che la presenza di Paride nell’abitazione sia solo episodica, rimanendo la stessa vuota per gran parte della settimana. In realtà nonostante gli allontanamenti frequenti dovuti alla tipologia di lavoro svolto, possiamo ritenere che quella sia proprio la dimora abituale di Paride. L’ISTAT nella circolare “Metodi e norme” n. 29 del 1992 evidenzia infatti che l’abitualità della dimora non è incompatibile con gli allontanamenti anche frequenti, che possono essere causati da svariati motivi, qualora la persona, al termine di questi, faccia sempre ritorno nello stesso Comune. Tale assunto è stato confermato dalla Corte di cassazione, la quale afferma che “la dimora abituale sussiste anche quando la persona si rechi a lavorare o a svolgere altra attività fuori del Comune di residenza, sempre che conservi in esso l’abitazione, vi ritorni quando possibile e vi mantenga il centro delle proprie relazioni familiari e sociali” (v. Cassazione civile, Sez. I, sentenza del 1° dicembre 2011, n. 25726).
Al contrario l’apparenza potrebbe portarci a ritenere abituale la dimora di Leonardo, considerato che trascorre cinque giorni su sette nell’appartamento che ha preso in locazione. Tuttavia un esame più approfondito della situazione familiare e delle dinamiche lavorative ci porta a ritenere che il centro delle relazioni sociali e familiari, sia altrove, e precisamente nella casa dove è rimasta la sua famiglia e nella quale fa rientro settimanalmente al termine degli impegni in azienda.
L’ISTAT nella sopra citata circolare afferma infatti che devono essere considerate residenti quelle persone che, per raggiungere il Comune ove svolgono la loro attività professionale, si assentano da quello di dimora abituale, nel quale hanno l’abitazione, la famiglia, l’iscrizione anagrafica, facendovi ritorno seralmente o anche settimanalmente. Chiarissima sul punto è anche una recente pronuncia della Corte di cassazione, laddove si afferma che “ciò che rileva ai fini della individuazione della residenza, intesa come dimora abituale, è dunque la permanenza in un luogo per un periodo prolungato apprezzabile (c.d. elemento oggettivo), ma tale che non debba essere necessariamente prevalente sotto un profilo quantitativo, dovendo tale elemento coniugarsi con quello altrettanto rilevante, anzi dirimente, dell’intenzione di stabilirvisi stabilmente (c.d. elemento soggettivo), rivelata dalle proprie consuetudini di vita e dalle proprie relazioni familiari e sociali. Quest’altro elemento sussiste allorquando (…) un soggetto, pur non soggiornando permanentemente in un luogo, in relazione ai plurimi impegni che possono caratterizzare la sua vita, vi ritorna non appena può, instaurando ivi le proprie più significative relazioni sociali ed affettive” (v. Cassazione civile, Sez. I, ordinanza del 15 febbraio 2021, n. 3841).
L’incrocio che abbiano descritto fra la vita di Paride e quella di Leonardo rappresenta un bivio fra la realtà e l’apparenza e ci costringe a non limitarci ad una lettura superficiale dei verbali degli accertamenti eseguiti, dovendo valutare anche ulteriori elementi e condizioni, meno evidenti, ma comunque importanti, che possono concorrere ad una migliore definizione della dimora abituale.

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