Il cognome del figlio nato nel matrimonio

Il cognome del figlio nato nel matrimonio

Il figlio nato nel matrimonio ha il cognome del padre, cioè il cognome del marito della madre: la disciplina attuale individua il cognome maritale come identificativo della famiglia e come unico cognome per i figli.
L’aspetto più eclatante è dato dal fatto che non esiste alcuna specifica disposizione che stabilisca che il figlio nato nel matrimonio assume il cognome del padre: eppure si tratta di un principio non codificato, di una consuetudine divenuta tradizione e di un’usanza divenuta norma di diritto, pienamente applicata. Si tratta di “… una norma che non ha trovato corpo in una disposizione espressa, ma che è pur presente nel sistema e lo completa, della cui vigenza e forza imperativa non vi è ragione di dubitare… Sulla base di tale norma il cognome del figlio legittimo non si trasmette dal padre al figlio, ma si estende ipso iure da quello a questo” (Ordinanza n. 13298 del 17 luglio 2004 della Corte di Cassazione)
Su questo principio si era più volte espressa la Corte Costituzionale ritenendo, almeno fino alla pronuncia del 2006 della quale par­leremo più avanti, che fosse una prassi pienamente legittima e che l’attribuzione del cognome paterno fosse un elemento di unità della famiglia, quindi un bene prezioso da conservare, ritenendo che sa­rebbe sicuramente pregiudizievole “… se il cognome dei figli nati dal matrimonio non fosse prestabilito fin da momento costitutivo della famiglia” (Corte Costituzionale, ordinanza n. 176 dell’11 febbraio 1988 ): naturalmente, nulla vietava al legislatore di modificare tale disciplina, tanto che quasi in ogni legislatura venivano presentati disegni di legge con proposte di cambiamento, ma era chiaro che l’indirizzo della Corte, molto tranquillizzante e protettivo della tradizione, non poteva rappresentare uno stimolo all’attività parlamentare sullo specifico tema. Occorre anche precisare che nessuna delle normative proposte fosse mai arrivata all’esame del Parlamento, tanto da far dubitare sull’effettiva intenzione del legislatore di intervenire e di innovare un principio – quello della trasmissibilità al figlio del solo cognome paterno – rimasto stabile ed invariato fin dal formarsi del nostro Stato.
Nell’ordinanza della Corte di Cassazione n. 13298 del 17 luglio 2004, venne sollevato il dubbio che, forse, era discriminatorio imporre ai figli esclusivamente il cognome paterno, tanto da generare il sospetto che potesse trattarsi di una violazione dell’art. 3 della Costituzione: dubbio sul quale venne chiamata ad intervenire e pronunciarsi la Corte Costituzionale. La notizia venne diffusa a fine luglio 2004 e, nonostante il periodo estivo e di ferie, ebbe ampio risalto e spazio nei quotidiani e nei vari TG, a conferma di come fosse un argomento di grande interesse ed attenzione.
La Cassazione era stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso di due coniugi contro la Corte di Appello che aveva respinto la loro richiesta di attribuire alla figlia il cognome della madre. Anziché decidere il ricorso, la Cassazione aveva sollevato rilevanti dubbi di incostituzionalità di tutte le norme che impongono ai fi gli esclusivamente il cognome paterno, sostenendo che l’art. 2 della Costituzione, che tutela i diritti inviolabili della persona, debba essere inteso anche nel senso di favorire il diritto della madre a trasmettere il proprio cognome e che, inoltre, continuare a privilegiare il padre nel tramandare il proprio cognome costituisce violazione del principio di uguaglianza e, quindi, palese contrasto con l’art. 3 della Costituzione. Non solo, ma dalla stessa Corte erano state ricordate anche la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna (New York, 18 dicembre 1979, ratificata dall’Italia con l. n. 132/1985) e le raccomandazioni del Consiglio d’Europa n. 1271 del 1995 e n. 1362 del 1998, con le quali venne richiesto agli Stati di realizzare la piena eguaglianza tra madre e padre nell’attribuzione del cognome.
Sicuramente le argomentazioni portate dalla Cassazione diedero una scossa violenta ad una costruzione che sembrava avere solide basi, ad un principio non scritto e per il quale non veniva ritenuta necessaria un formulazione scritta, dal quale derivava l’attribuzione del cognome paterno al figlio nato nel matrimonio.
È bene rimarcare che la Cassazione aveva mostrato una grande sensibilità ai cambiamenti sociali intervenuti all’interno della famiglia, tanto da sostenere che l’unità familiare non poteva essere perseguita con disposizioni discriminatorie nel momento della scelta del cognome, ma restavano molti dubbi sulla possibilità che le enunciazioni della Cassazione fossero sufficienti per convincere i giudici costituzionali ad una pronuncia di illegittimità che avrebbe rappresentato un cambiamento radicale nelle tradizioni del nostro Paese.
Tuttavia, si deve riconoscere che le problematiche esposte dalla Cassazione rappresentavano una porta aperta, una strada già segnata sulla quale si sarebbero potuti facilmente incamminare i giudici costituzionali, percorrendola fino in fondo, cioè fino ad ar­rivare alla dichiarazione di illegittimità: sappiamo che questo non avvenne formalmente, ma le argomentazioni della Suprema Corte avrebbero dovuto far riflettere anche il legislatore, suggerendo un rapido intervento verso una disciplina più aperta nell’attribuzione del cognome. Sicuramente un attento e ponderato intervento legislativo avrebbe rappresentato la procedura più corretta, magari preceduto da un ampio dibattito nel quale si sarebbero potute esaminare ed approfondire le diverse ipotesi relative all’imposizione del cognome, disciplinando anche le possibili scelte dei coniugi: non dobbiamo dimenticare infatti che, nella maggior parte degli altri Paesi europei, la normativa in proposito è molto meno rigida e più favorevole alle scelte dei genitori.
In effetti, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 61 del 16 febbraio 2006, entrò nel merito della questione di legittimità costi­tuzionale, sollevata dalla Corte di Cassazione, dell’attribuzione al figlio del cognome paterno. Dapprima vennero richiamate le precedenti sentenze della Corte stessa:
“Con l’ordinanza n. 176 del 1988, fu dichiarata manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 71, 72 e 73 del regio decreto n. 1238 del 1939, sollevata sotto il profilo della mancata previsione della facoltà dei genitori di determinare il cognome da attribuire al proprio figlio legittimo mediante la imposizione di entrambi i loro cognomi, e del diritto di quest’ultimo di assumere anche il cognome materno… Con la successiva ordinanza n. 586 del 1988, chiamata a decidere sulla legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 della Costituzione, degli artt. 6, 143-bis, 236, 237, secondo comma, 262, secondo comma, c.c., nella parte in cui non prevedono la facoltà per la madre di trasmettere il proprio cognome ai figli legittimi e per questi di assumere anche il cognome materno, la Corte, nel concludre per la manifesta inammissibilità della questione, ribadì le argomentazioni contenute nella precedente ordinanza n. 176 del 1988”.
Subito dopo, venne ricordato che i tempi erano cambiati e che erano sicuramente maturi per una revisione di quella disciplina, tenendo conto anche delle fonti internazionali.
“A distanza di diciotto anni dalle decisioni in precedenza richiamate, non può non rimarcarsi che l’attuale sistema di attribuzione del cogno­me è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna. Né può obliterarsi il vincolo – al quale i maggiori Stati europei si sono già adeguati – posto dalle fonti convenzionali, e, in particolare, dall’art. 16, comma 1, lettera g), della Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 14 marzo 1985, n. 132, che impegna gli Stati contraenti ad adottare tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei rapporti familiari e, in particolare, ad assicurare ‘gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome…’”, ma, in ogni caso, la questione venne giudicata inammissibile e, quindi, le norme pure fortemente criticate vennero lasciate in essere, “… tenuto conto del vuoto di regole che determinerebbe una cadu­cazione della disciplina denunciata, non è ipotizzabile, come adombrato nella ordinanza di rimessione, nemmeno una pronuncia che, accogliendo la questione di costituzionalità, demandi ad un futuro intervento del legislatore la successiva regolamentazione organica della materia”.
In sostanza, pur non potendo intervenire in quanto avrebbe dovuto effettuare una operazione manipolativa che non rientrava nei poteri della Corte, quella decisione condannava duramente l’attuale disciplina del cognome, e conteneva un palese invito al legislatore, un sollecito a provvedere, ad attivarsi al fine di emanare una nuova disciplina che fosse in linea con i tempi attuali, con le Convenzioni internazionali, con il principio di uguaglianza tra uomo e donna sancito dalla nostra Carta.
Da quella importantissima sentenza, sono trascorsi molti anni senza che la nuova disciplina abbia visto la luce, nonostante il richiamo dei giudici costituzionali e nonostante un testo legislativo, approvato dalla Commissione Giustizia del Senato, che in sostanza introduceva il doppio cognome come principio generale, quello del padre e quello della madre, modulandolo diversamente in presenza di istituti specifici quale l’adozione o in occasione di fattispecie particolari come il riconoscimento successivo alla nascita: la fine anticipata delle legislatura fece venir meno anche quel testo.

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